Poesie di Mahvash Sabet

Lo spazio di Atena

di Matilde Cesaro

Mahvash Sabet, insegnante iraniana di Fede Bahá’í, condannata nel 2008, a vent’anni di prigione e rinchiusa a Evin la famigerata prigione di massima sicurezza alla periferia di Teheran (uscita dopo aver scontato una pena ridotta a dieci anni per una riforma legislativa).

Arrestata perché di Fede Bahá’í, da sempre perseguitata in Iran e da tutti i regimi che si sono succeduti al potere sin dal 1844, perché considerata una Fede nemica dell’Islam.

Mentre era in prigione Mahvash Sabet, ex insegnante e preside che ha lavorato anche con il Comitato nazionale dell’alfabetizzazione dell’Iran, ha dato voce alla sua poetica nonostante gli anni di prigione e la continua violazione dei suoi diritti. Potentissimi versi, che seguono la grande tradizione poetica della Persia.

Solitudine
«Che cos’è la solitudine».
«Nessuno resta con te».
«Ancora più sola».
«Quando nessuno ti ama».
«Più sola ancora».
«Quando nessuno ti capisce».

Nei primi, durissimi mesi passati nella cella 209 del carcere di massima sicurezza di Evin, a nord ovest di Teheran, Mahvash riesce a far pervenire all’esterno, grazie ad alcuni intermediari, le sue poesie.

Una poetica animata dal respiro della grande sapienza mistica, dove “ogni concetto assume connotati simbolici, le esperienze sono volutamente descritte in modo ambiguo e misterioso” con un linguaggio semplice e lineare, a tratti minimalista tipico della nuova poesia persiana. Le poesie arrivano in Francia e raggiungono anche Bahiyyeh Nakhjavani, scrittrice di fama internazionale.

La Nakhjavani ne fa una traduzione in inglese pubblicata a Oxford nel 2013, con il titolo Prison Poems, che riscuote molto successo. Nel 2014 questa antologia ottiene il riconoscimento di Pen International, un’organizzazione che dal 1921 promuove la letteratura, la libertà di espressione e il libero scambio del pensiero nelle nazioni e fra le nazioni. Il 10 novembre 2014 Alberto Manguel, scrittore canadese di origine argentina, pubblica sul The Guardian una lettera aperta indirizzata alla poetessa. Lo scrittore dice di sentirsi «quasi impertinente a scrivere a una poetessa segregata dietro le sbarre per le sue parole e la sua fede». Cerca di consolarla dicendo che «qualunque cosa la società faccia a un poeta, le sue parole saranno sempre libere nella mente dei lettori e continueranno a portare alla luce nuove idee per indurre la mente a dialogare».

Nel 2017  il volume Prison Poems ottiene il premio “International writer of courage Pen Pinter Prize” diviso con Michael Longley.

Il mio cuore soffre per il silenzio delle stelle,
per l’angosciosa sete del deserto
che anela allo scroscio della pioggia.


Il mio cuore soffre per il soffio del vento,
che spira sulle acque deserte.


La luna illumina il prato, nel livido tremore del lago.
La piana s’accende di una vivida luce.


Dov’è la folta chioma del salice dormiente,
che si chinava sulle verdi spalle delle acque?


Dov’è la penetrante fragranza della rosa rossa,
che impregnava il dorato giardino della gioia?


Perché trascorre nel dolore questa vita
e nel buio della notte non sorridono le stelle?

Mahvash Sabet, La stella, in EAD., Poesie dalla prigione, a cura di Faez Mardani e Julio Savi, Milano, Edizioni del verri, 2016, pagina 35.

Nonostante la grande ingiustizia di cui è stata  vittima la poetessa  riesce  a trasformare anni di sopraffazione e di dolore in un’occasione per dare forza ai suoi ideali.

Le poesie sono state divise in capitoli  dai traduttori Faezeh Mardani e Julio Savi: “Mura”, “Diario”, “Ritratti”, “Preghiere”, “Pensieri”, “Speranze”, “Faribà”, “Altre dediche”. Una scelta che permette di seguire la poetessa nei diversi risvolti della sua condizione e della sua personalità.

Le poesie contenute in  “Mura” raccontano le sensazioni opprimenti sperimentate ma nello stesso tempo spiegano come sia possibile resistere a quelle durissime prove. “Diario” trasporta bruscamente fra quelle anguste mura. Si mescolano vite, giovani e vecchie, colpevoli e innocenti, tutte livellate dalle sofferenze di «quel doloroso limbo». Mahvash, spesso assieme alla sua amata compagna Faribà Kamalabadi, in prigione per gli stessi suoi motivi, difende la «santità dell’uomo», cercando di restituire dignità all’oppressore.

“Ritratti”  contiene ritratti di alcune prigioniere, suscitando sentimenti di compassione e anche di solidarietà per queste vittime dei pregiudizi sociali e delle loro scelte.

Preghiere” descrive la sua rinnovata forza d’animo che trae dallo Spirito la forza necessaria per superare il «solitario estraniamento» della sua «vita capovolta».

Le poesie di “Pensieri” sono infine la testimonianza della sua resilienza, della sua capacità di vedere la luce pure in quella oscurità.  Dalle finestre del suo pensiero irrompono ancora «la primavera, il canto e la poesia».

La resilienza pacifica, attiva e costruttiva è un’utopia o una realtà?!
È un’utopia concreta (un bel paradosso!)
Fatti e non parole siano il vostro ornamento…
Beato colui che si unisce a tutti gli uomini in spirito di massima gentilezza e di profondo amore

Anche “Speranze” parla della vittoria della luce sulle tenebre. È la fede che le permette di coltivare il suo cuore e di trarne «tulipani d’amore», che le consente di accettare questa ingiusta pena nella certezza che in quel «luogo di morte» ogni atto crudele suscita la reazione opposta perché già «mille giovani insorgono»

Il grido degli uccelli all’alba conferma
che da tempo gli usignoli non cantano più in questo giardino.
Noi non diciamo niente, ma il silenzio rivela
il nostro pianto per le violette nascoste tra le spine.
Ho scritto un messaggio su una foglia di nasturzio
e l’ho appeso davanti alla mia porta, come un amuleto.
Dice: “Qui aspetta un cuore caldo
e braccia di madre spalancate”.

Note finali:

La comunità bahá’í in Iran è perseguitata dal Governo e ai giovani bahá’í è precluso l’accesso all’università. In seguito a queste privazioni i bahá’í hanno fondato un’università bahá’í autogestita dal 1987.

“Possono toglierci via tutto ma non possono estirpare il nostro amore per la conoscenza”
Sin dagli albori della sua nascita, a metà dell’Ottocento, la Fede bahá’í è stata perseguitata in Iran e attualmente ai giovani bahá’í è preclusa, dal Governo, la possibilità di accedere agli studi universitari a causa del loro credo religioso e ai docenti bahá’í di insegnare.


Dal 1844 con la nascita della Fede, i bahá’í sono stati vittime di violente e deplorevoli persecuzioni, migliaia i martirizzati e coloro che sono stati privati di diritti fondamentali. Le motivazioni di tale sistematica repressione e volontà di annientamento della comunità bahá’í sono svariate; il mantenimento del potere religioso e politico del clero sciita, la paura del diffondersi di una nuova religione, la paura del cambiamento di certi principi e comportamenti culturali e così via…
Vi sono inoltre precise motivazioni che rendono il caso dei bahá’í in Iran differente rispetto ad altri gruppi religiosi, politici, etnici ecc… anche loro perseguitati, che vanno ricercate nei principi rivelati da Bahà’u’llàh ai quali i bahá’í devotamente ubbidiscono. Tutta la Rivelazione bahá’í è fondata sul principio dell’Unità, la visione che Dio è uno, i messaggeri di Dio ( Abramo, Mose, Buddha, Cristo, Muhammad, Bahà’u’llah ecc…) sono un unico corpo con diverse sembianze a seconda del tempo e del luogo nel quale si rivelano, e che la razza umana è una e quindi che la terra deve essere considerata come un solo paese e l’umanità i suoi cittadini.

La visione di unità bahá’í contempla la preservazione di tutte le meravigliose diversità di cui gli uomini sono caratterizzati. Per poter conseguire questo scopo e costituire una Pace mondiale grazie alla quale tutta l’umanità possa prosperare è necessaria l’abolizione del conflitto, in tutte le sue forme e a tutti i livelli. Nello specifico si attua con un’altra legge bahá’í che impone a tutti i credenti di obbedire alle leggi dello stato in cui vivono e di non entrare per nessun motivo in conflitto con le istituzioni o con i loro connazionali e per questo motivo persino l’attività partitica è vietata ai bahá’í. Chiaramente quando le leggi dello stato impongono ai
credenti di rinnegare il loro credo religioso i bahá’í sono tenuti a rivendicare la legittimità dei loro diritti, sempre in forme non conflittuali, e devono essere disposti a sacrificarsi e a non rinnegare la loro religione.

Ai bahá’í non è permesso accedere all’università, non possono lavorare negli uffici pubblici, in nessun ambito statale, le licenze per le attività commerciali sono negate poiché considerati persone impure, o le case e le proprietà vengono confiscate senza motivo, i luoghi considerati sacri distrutti, i cimiteri dissacrati, tutte le loro comunicazioni sono controllate dallo stato e così la loro vita privata, e in qualsiasi momento del giorno o nel cuore della notte le loro case possono essere invase dai Pasdaran e i capi famiglia o a volte anche i bambini vengono arrestati, in un contesto in cui non hanno il permesso di vivere nessun tipo di vita comunitaria.

Per sopravvivere a queste privazioni sono state intraprese molte azioni sul campo ma una in particolare: l’università fatta in casa. BIHE (Bahá’í Institute Higher Education). Non potendo accedere all’università pubblica e neanche a quella privata la comunità bahá’í ha fondato e strutturato, nel 1987, un’università bahá’í che ha sede nelle case dei credenti di tutto il paese. Le facoltà sono le più svariate, fisica, chimica, ingegneria, psicologia, letteratura e così via; gli insegnanti sono
coloro che sono stati espulsi dagli incarichi pubblichi, quindi che lavoravano nell’università pubblica, o coloro che in questi anni si sono laureati; gli studenti sono tutti i giovani bahá’í che desiderano restare nel proprio paese e che non possono accedere all’istruzione pubblica a causa del loro credo religioso; le aule sono le sale delle case dei credenti, sparse in tutto il paese, i banchi sono i tappeti o le sedie sulle quali si siedono a studiare, i libri sono per lo più fotocopiati, le mense sono le cucine delle signore persiane, i dormitori sono le camerette dei figli che lasciano per brevi periodi i loro letti agli studenti. Attualmente offre circa 17 corsi di laurea e programmi accademici di apprendimento e di ricerca nel campo delle scienze, delle scienze sociali e delle arti.
Ovviamente lo stato non riconosce l’università bahá’í, anzi l’osteggia sistematicamente confiscando tutto il materiale e i mezzi utilizzati, cd, libri, computer, fotocopiatrici, e arrestando i docenti, ma fortunatamente, grazie al lavoro dei bahá’í occidentali, diverse università estere, sia in America che in Canada che in Europa riconoscono il percorso di studi e l’alto livello di preparazione degli studenti e quindi gli concedono il titolo di studio come se avessero studiato nelle suddette università.

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