#15 – Gino Panariello
Nota e selezione testi a cura di Beatrice Orsini
La poesia di Gino Panariello abita la pianura delle cose incompiute.
Ci sono zone di non ritorno nelle esistenze che conduciamo, soglie che – una volta attraversate – definiscono una rottura irreparabile. La correzione di azioni, pensieri, parole costituisce da quel momento in poi un sollievo effimero e momentaneo perché la memoria delle nostre colpe si erge a male necessario e a giudice impietoso, che non assolve mai, da nulla. Si diventa colpevoli di esistere e di essere sopravvissuti.
La scrittura di Gino Panariello si muove tra il tentativo di dare ordine con le parole a qualcosa che presenta un’irriducibile inarticolatezza e la certezza che le parole “sono sempre troppo/o poche /e sempre inappropriate”.
Allora perché inseguire un processo di scrittura se la poesia non ha una funzione redentrice ma è “verde muffa / su mollica di pane / che butti / pur di non regalare”?
Accostando i suoi testi si ha l’impressione di un dialogo tanto irrisolvibile quanto tenace tra due poli di un’unica soggettività, da cui l’altro è bandito. Gino Panariello non sembra cercare ascolto fuori da sé, consapevole forse del fatto che probabilmente non lo troverebbe – ciascuno impegnato nella propria partita con la vita – e la sua domanda assume le forme di un’invettiva verso quell’altrove e quell’alterità che abita zone recondite del suo essere, a cui non applica nessuno sconto.
Forse solo con questa lucida consapevolezza si può evitare di soccombere alla “pianura delle cose incompiute” dentro cui ci dibattiamo, riuscendo a cogliere nelle scorie altrui barlumi di bellezza e verità.
Solo nelle cose scartate, Panariello pare muoversi con un certo agio, tanto che, nella sua poesia, la proclamazione con cui il pronome personale alla prima persona singolare imperversa nei versi (e ne rafforza l’incipit) non si accompagna ad un’affermazione di sé ma rappresenta, al contrario, un antimanifesto dell’identità, tramite un’azione controcorrente all’epoca di narcisismo imperante in cui siamo tutti a mollo.
Se mi rivolgo alla sua scrittura in versi e non a quella in prosa, che pure frequenta con disinvoltura e maggiore assiduità, è in ragione del fatto che la scarica elettrica che le attraversa entrambe, solo nella cifra poetica termina nel contraccolpo di una carezza, quella di chi ha il talento necessario per interpretare la mancanza e presentificare l’assenza, senza doverla nemmeno nominare.
Invisibile.
Io non ci credo ai necrologi,
a mani pulite e reticenti.
Credo nel sollievo dell’unghia che stacca la crosta dal taglio.
Non credo al paradiso,
credo all’ineluttabile,
al suolo e a chi ne ha fatto casa.
E credo alla carne,
credo al sangue
e al muco,
al vento freddo che lo secca di notte
sui baffi.
E credo alle porte chiuse in faccia
e alla nebbia
che diventa brina sulle sopracciglia, la notte di Natale,
guardando le luci nelle case degli altri.
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Non spiegabile
Io sono tarato
ho occhi socchiusi
e sorrisi sbilenchi che turbano utenti del verde cittadino
e delle piazzole per cani educati.
Io sono brutto
le mie parole sono sempre troppe
o poche
e sempre inappropriate.
Io non so parlare
di nulla
so solo guardare
la pioggia far brillare
il pelo dei ratti
e l’asfalto.
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Io non respiro
Io non respiro
colleziono apnee
riporto alla memoria
tachicardie vissute.
Io non respiro
comprimo l’addome
prima di giungere in cima alle scale
e il mio diaframma è un saliscendi
mosso dall’ eco
delle cartilagini
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Mancanza
Interpretare il vuoto richiede talento.
Conosco la mancanza
da quando le certezze
presero la forma delle mani di mia madre.
Mi ha camminato a fianco tra Roma e Torino.
Ed è una strana cosa
si nutre di riflessi
tra le orme lasciate
nel fango di Borgogna.
Milano intanto si specchia nei vetri di mille treni presi
da cui vedere il mare
sempre troppo lontano.
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Pareti
Tra le pareti
della
mia calotta cranica
c’ è un’enclave
di vite degli altri
di schiaffi e carezze raccolti per strada come cani randagi
che basta guardarsi
e tutto è già detto.
Dalle pareti
della
mia calotta cranica
qualcuno ha strappato la carta da parati
ma resta presente come nerofumo sotto al paraurti
quell’ odio garbato che uccide.
Sulle pareti
della
mia calotta cranica
c’è una finestra
da cui entrano paglia e polvere d’ estate.
da cui a volte riesco a vedere l’inizio del giorno
o invece rimango a guardare
le chiome dei pioppi agitarsi
nella pianura delle cose incompiute.
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Non mi stai ascoltando
E tu mi parli.
Di Hemingway, mi parli.
Di uno
abituato a glorie
senza passare mai la mano.
e poi mi spieghi del dolore
e del carico eccessivo di un corpo che marcisce.
E, allora, di quanto fosse saggio posare il freddo
della canna fra le labbra
e cogliere l’istante d’ irripetibile coraggio.
Ma io non ho studiato,
di Hemingway conosco
solo la barba bianca
e qualche
parola
mal riportata.
Ma tu non stai ascoltando
null’altro
se non le tue parole, così musicali
e fini a se stesse.
Quando poi dici “morte ” con aria compiacente e corrughi la fronte, tutto ‘sto casino sembra davvero ‘na cosa intelligente.
Ma qui,
seduto sul ciglio,
e coi piedi nell’ acqua dei fossi non mi interessa,
ora.
Io voglio
solo respirare parole
che non avrò mai
a mo’ di spiegazione.
Ma tu mi parli, di Hemingway, mi parli.
Io non conosco Hemingway
e tu
non mi stai ascoltando
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Sono insignificante
non vibro come spighe al vento mentre finisce il giorno
non c’è gradevolezza
brucio come gramigna
sul ciglio della strada
alle due di un pomeriggio estivo
mentre l’aria fluttua e il calore amplifica
l’olezzo persistente dei preservativi cotti dal sole sull’asfalto.