Il Sole e Il Sale – Itinerari Poienauti

il

#16 – Flavio Malaspina

Nota e selezione testi a cura di Angelo Curcio

Ho incontrato per la prima volta la parola poetica di Flavio Malaspina nel crogiolo fecondo e dinamico di Poienauti, pagina digitale dai vasti confini in continua espansione ed esplorazione degli spazi circostanti, attenta al nuovo e ai retaggi che ci fanno storia e modello, con Armando Saveriano onnipresente a elargire ipotesi di visione, traiettorie da non trascurare, spezia arguta di curiosità, confronto di personalità il cui risultato è un reciproco arricchimento.

In quegli anni Malaspina non era certo un neofita della poesia; con passione ma senza invadenze da protagonista ci proponeva liriche sintetiche ma di spessa intensità, spazi di riflessione sulla caducità delle esistenze, sul nostro itinerario terreno, con una particola di amarezza e rassegnazione sovente squarciata da vivifichi slanci di lirismo vissuti con la sorpresa nello sguardo (“Un’esplosione d’ali di un airone riconfigura gli spazi tra me e l’infinito”).

Quando poi, opportunamente “sfruculiato” a vagabondare su rotte apparentemente non di dominio del proprio sestante Malaspina accoglieva di buon grado la sfida e ci sorprendeva con “paesaggi umani” dove l’autobiografia si confronta con l’inedito. Ne è chiaro esempio Lo scoglio incantato (che di seguito offriamo in lettura), un Ut Pictura proposto dal solito Armando come confronto/scontro col mito di Ulisse: qui l’eroe greco è uomo che diffida di isole e di mare aperto, ne ha piene le tasche di Circe e dei suoi rituali magici, impegnato com’è in quotidiane battaglie con “occhiali rotti e ulcere / sangue in bocca e gastroscopie”. Anche la sua Penelope smette di essere emblema di eterna fedeltà e indossa i panni della Penelope/Molly Bloom di joyciana creazione, donna irrisolta “che parla e.… parla / e.… continua a parlare / per tante pagine quante la vita”.

In conclusione di questa breve nota mi accorgo che ho commesso l’errore, figlio di sempre pressanti nostalgie, di usare tempi verbali al passato; per nostra fortuna la poesia di Flavio Malaspina continua pacata e intensa ad alimentare la meditazione di chi con essa vorrà confrontarsi.

Gelo

Il gelo ha disegnato una nuova geografia

su di un naviglio vuoto e malinconico.

Nelle uniche pozze

crepita il ghiaccio come una caramella frizzante.

Un’esplosione d’ali di un airone riconfigura gli spazi tra me e l’infinito.

Taccio e riprendo il cammino.

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Tanto

Si può morire in una manciata di giorni,

certo,

si può.

Un colpo di morra sbagliato

una mano di riffa incauta

uno spariglio disattento.

Ma tu che facevi delle parole musica

cosa c’entravi con tutto questo?

Il tuo ultimo arpeggio era sembrato un arrivederci

non un addio.

Adesso rimane

solo una custodia vuota

e tutto ciò

che hai avuto da dirci:

Tanto.

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Miraggio

Non augurerò mai un buon viaggio

non l’ho mai fatto e non lo farò mai.

Quando vi ho visto partire ho capito subito

che dove stavate andando non ci sarebbe stata aria

non ci sarebbe stato ossigeno.

Me lo diceva la smorfia delle vostre bocche

e i vostri occhi sbarrati.

Non augurerò mai un buon viaggio

perché non è un viaggio

ma solo la fine di un miraggio.

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Lo scoglio incantato

Il viaggio

il sartiame

Pesano come cetacei

Il braccio mio è d’aratro

Itaca o Dublino non fanno per me

Se pur -imponente e grassoccio-

Diffido delle isole e il mare aperto

Uomo di pianura

Le nebbie i miei sulfamidici

Rogge e campi le mie leghe

Di Circe ne ho piene le tasche

E delle sue magie la nausea

L’altro

La sua vita un Dedalus

Di crocicchi e agguati

Occhiali rotti e ulcere

Sangue in bocca e gastroscopie

Io -non un uomo ricco d’astuzie-

Soltanto un piccolo stupido

“Nessuno” sapeva d’archi e vele

Io mi intendo di terra

di figli e nipoti

E di bocconi amari

Non di sirene e cera nelle orecchie

Non pugno alberi e non acceco

Penna d’oca e inchiostro le mie armi

Non ho tempo per Shakespeare

Le sue commedie i drammi e i sonetti

Son arte a parte baciati dalla musa

Io solo scribacchino

Non ho mire

Così spargo il foglio di presenza di spirito

E il tratto mi è testimone

Ma mi ripeto

Itaca e Dublino non fan per me

Men che meno le sue donne

Non Penelope dal lento telaio

Men che meno l’introspettiva Molly

Che parla e… parla

E… continua a parlare

Per tante pagine quante la vita

Il mio viso attento

Non è d’argine alla mia barba

Che cresce come un vello

In attesa che la figlia di Icario

Termini il sudario di Laerte

E la Bloom si addormenti

Sognando i suoi amanti e il palcoscenico

Ma per l’amor di Dio

Basta Ulisse

Lasciatemi solo

E solo il mio respiro

Mi sia compagno

Magari solo un poco di vento

Che soffi sulla pianura

E mi spinga verso la mia di isola

Fatta di stracci e case abbandonate

Resti pur lontana la salsedine

Il mio porto non ha conchiglie

E non ne vuole

Io il -non legato all’albero-

Son già isola

Ho gettato bussola e sestante

E… che questo vi basti

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Dirvi chi sono

Conto la mia vita con le rughe,

come gli anelli con gli alberi,

chiari in primavera

scuri in inverno.

La mia pelle è pergamena

Ove l’amanuense tempo ha vergato i segni.

Le macchie,

gli affanni

le cicatrici gli amori.

Con le rughe conto la mia vita,

le mie insoddisfazioni le più profonde

per le felicità quelle appena accennate.

Non le nascondo

sono fiumi in secca,

loro hanno il privilegio

di dirvi chi sono.

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