Mistero rosso

Lo spazio di Atena

di Lucia Triolo

A)  “Una ragazza di nome Giulio”: il ruolo dell’altro e l’annullamento della distanza

«Rovesciata sulla sabbia, sentivo una goccia di sangue che si faceva strada, che usciva, una grossa goccia di sangue che Amerigo osservò sgorgare con stupore, con smarrimento incredulo. Fu in quell’attimo che egli […] si gettò con la testa tra le mie cosce e la sua bocca toccò quel sangue, bevve quella goccia”.

Come in un quadro vivente, l’immagine afferra il lettore per proiettarlo – sorpreso e forse scandalizzato – dentro qualcosa di poco familiare al rapporto amoroso: la presenza dell’altro, (compagno, amante etc…) all’interno dell’evento mestruale; la sua voglia di partecipazione, di assaporamento. Quasi che nel rapporto di amore il sangue che scorre nelle vene di lui debba conoscere il sapore del sangue che esce da lei: il gesto di assaporarne il gusto con voracità in questo senso è emblematico di una partecipazione attiva all’evento.

Ma nel tepore borghese torbido e conformista dell’Italia letteraria di metà degli anni sessanta, la scena descritta nel brano, tratto dal romanzo di Milena Milani Una ragazza di nome Giulio, (1964), squarcia dolosamente un velo di copertura, di nascondimento. Irrompe come uno strappo intollerabile. L’autrice viene processata e il romanzo messo all’indice per il suo contenuto immorale fino alla trivialità e alla sconcezza.

 Non interessa qui seguirne le sorti giudiziarie né la sua alterna fortuna letteraria. Ciò che è di grande interesse, a mio avviso, è il fatto che mette a fuoco un punto cruciale nella considerazione storica e culturale dell’evento mestruale e del femminile che ne è protagonista: il ruolo dell’ “altro”. Nell’annullare una distanza, il gesto di Amerigo segna una presenza. Il tentativo da cui è attratto è quello di sbranare l’oscuro, di accostarsi e far luce con la propria operatività a una differenza sessuale che assume, per tratti storico-culturali, il volto di un mito fosco e inespugnabile. Nella nostra cultura, infatti, l’evento mestruale resta confinato dentro un regime saldamente solipsistico: l’ altro è qualcuno che di solito ne resta fuori, spesso gli volta le spalle e lo subisce come un fastidio, rifiutandone l’accoglienza. I giorni del ciclo vengono vissuti per lo più nel silenzio, come una noiosa e fastidiosa ripetizione quasi un calare dell’ombra sulla vitalità e sulla pratica dell’amore, che si riflette in molte espressioni correnti ( ad es. “le mie/sue cose” etc.). Oppure, ed è questa la “buona” normalità, come segno che, per quel mese, dal rapporto d’amore, non verrà fuori alcun incremento demografico e la vita del cosmo, la sua metamorfosi (di coppia e/o universale) rimarrà indifferente, estranea, intoccata.

 Precisamente a partire dal ruolo per lo più mancato dell’altro ripercorrerò le tracce del “mistero rosso”, cercando di dipanarne, almeno un poco, l’aggrovigliata matassa.

B) Una narrazione traditrice: la sagoma divaricata nella parola

Anzitutto una precisazione. Il desiderio di raccogliere in queste righe alcune considerazioni che toccano l’argomento (per altro obsoleto) non chiama in gioco riflessioni che debbano qualcosa all’amore di sé, all’egoismo, alla voglia di conquistare la scena in un protagonismo subdolo e insidioso da parte del femminile. È piuttosto debitore alla voglia di capire, di rendersi conto del retaggio culturale che, il mistero rosso si porta dietro “Far uscire dal silenzio l’evento mestruale è il primo passo verso la sua accettazione, verso la celebrazione gioiosa del menarca (…) verso la definitiva destrutturazione della castigazione biblica che storpia il nome di Astarte in Ashtoreth facendolo diventare <<qualcosa di vergognoso>>”  (A. Barina,  Introduzione a Fil Rouge. Epos 2015, p. 15). Si tratta di combattere/contestare l’idea atavica che nel corpo femminile, nella sua carne l’indicatore “rosso” possa rimandare a una “forza sentita come negativa e distruttrice”( (L. Magazzeni, Introduzione a Fil Rouge. cit, p.7), qualcosa di sporco, di osceno, indecente; un evento ineliminabile ma cui si volgono le spalle con ribrezzo: “Sentito come elemento di grande potenza e bivalente, segnale di vita e di morte, il sangue delle donne mestruate é però per gli studiosi della tarda romanità e del medioevo, espressione di una corporeità femminile insidiosa e malefica, impura”(ivi, p. 6) fino a determinarne in quei giorni anche la segregazione (cfr. ivi, p.7).
A ben vedere c’è una letale sproporzione che ha le dimensioni di una voragine nella narrazione del corpo femminile. Al di là della indubitabile e continua attrazione esercitata dall’evento-femmina, il percorso della sagoma di esso da considerazione mentale a considerazione concreta, accoglie il divario, tra un accettabile (piacevole, bello, lodevole, accattivante, invitante, affascinante) e un inaccettabile (spiacevole, brutto, deprecabile, respingente, triviale, ripugnante). C’é una “macchia” nel bello del femminile e questa macchia va “coperta” con un taglio, una scucitura. Si tratta di una cesura che passa per la parola.

Di questa voragine lessicale presto trasformata in una voragine del sentire, il caposaldo di fondo, è appunto, il flusso mestruale. Su di esso si costruiscono immagini mitiche e pseudoreligiose che danno conto di quei giorni come momenti in cui una donna è infetta.

La peculiarità di questa cesura è che non si costruisce su qualcosa che cade sotto la responsabilità dell’azione di un soggetto (femminile), di una volontà (femminile) operante. La si ritrova a carico di qualcosa che piomba sulla sua natura e ne lacera il tessuto. Strattonata tra un positivo e un negativo, la sagoma-donna è quindi una sagoma divaricata. Dinnanzi al mestruo è l’immaginario mitico che governa il fondo di ogni nostra parola a rompere il sigillo della natura.

Non sfugge che in tutto ciò che giace sotto i nostri occhi è possibile cogliere ed esprimere attraverso espressioni verbali adeguate, aspetti fisiologici (un nucleo, si diceva, di accettabile e desiderabile) e aspetti patologici (un nucleo di inaccettabile e indesiderabile). I due aspetti sono di solito correttamente separabili perché in contrasto: il secondo è quasi sempre la degenerazione del primo, una sua andata a male rispetto al progetto originario. Quasi assumendo un compito notarile, la parola registra e manifesta una rottura, un’alterazione del progetto che si è prodotta in natura.

Nell’evento-femmina invece i due nuclei (accettabile e inaccettabile) insistono entrambi sull’aspetto fisiologico del corpo. Non vi è al riguardo una patologia che metta in discussione o in crisi il progetto naturale originario. Parlarne in modo da distanziare, slegare, dividere il corpo femminile in due aspetti che in natura vanno insieme, significa allora fare a pezzi l’unità che li vorrebbe vissuti e capiti congiuntamente come complementari. Significa farsene gioco. Va da sé che, nel corpo dell’evento-maschio questa rottura non si produce mai.

Ma quando la parola si fa gioco della natura, e addirittura entra in contrasto con essa, ciò che si opera è una sorta di tragico tradimento le cui conseguenze mefitiche non si fanno attendere: la questione lessicale (il “come-ne-parlo”) assume un ruolo della massima importanza perché in questo caso è nel linguaggio e attraverso di esso che la realtà non viene più trasmessa bensì nascosta dall’immagine: il reale si ritira per lasciare in primo piano l’immaginario. Precisamente ciò accade alla corporeità femminile inchiodata nel suo ciclo: il sangue ci arriva come immagine e in un’immagine. Di conseguenza immaginario ne é il senso. Ogni fisiologicità viene abbandonata come ingombrante relitto producendo una paradossale ambiguità ontologica per cui è auspicabile tener ferma una distanza tra sconcio e desiderabile dentro il corpo femminile.

Nella cultura occidentale del mistero rosso c’è dunque uno scarto esiziale tra la natura, che ce ne addita la ragion d’essere, il progetto e l’ immagine che la parola ci restituisce. Parlando del corpo femminile, il maschio parla di un’immagine e non della sua realtà. Di più: parla di un’immagine che ne falsa la realtà

E il tabù si protrae. “La sfera generativa femminile resta ancora oggi intaccata dall’idea di <<impurità>>” (ivi, p.12). I progressi della scienza medica hanno già da tempo fatto giustizia di molte superstizioni legate a questo tema. Eppure questi progressi sono appannaggio di un’attenzione dello sguardo avvertita e preparata da un punto di vista culturale che però galleggia ancora in superficie senza permeare alcuna coscienza sociale. Fuori dall’orizzonte o anche sul bordo di quello sguardo ci si ritrova ancor oggi legati ad una componente ideologica che in tantissime zone del nostro pianeta piange la prigionia di una sorta di pensiero arcaico. Pur senza dilungarsi, è sotto gli occhi di tutti la carrozzeria ideologica scalcinata e in putrefazione che muove nazioni come l’Afghanistan o l’Iran a mietere vittime nel mondo femminile e nei suoi paladini, creando eroi tanto involontari quanto autentici. Ma non è certo solo là che, a più di mezzo secolo di distanza, le incivili ragioni dello scandalo che decise negli anni 60 del secolo scorso le sorti di “Una ragazza di nome Giulio” ripetono ancora  i loro tristi fasti.

A questa mistificante struttura non sono estranei fattori di comodo. Mantenere il femmineo ambientato dentro lo scarto della traslazione dal reale all’immaginario fa sì che il discorso su di esso sia risultato per sole immagini: una circolare su certi “giorni”, sul loro colore, come una sorta di nevrosi collettiva che programmaticamente nella parola che la esprime si lascia sfuggire l’essenza della cosa.

Questa mistificazione (per cui, ripeto, l’immagine-femmina si sostituisce fino a scalzarlo all’ evento-femmina) ha un vantaggio immediato: poiché l’immagine è facilmente manipolabile, se ne può trarre un prodotto da immettere sul mercato, spendibile a fini economici e di potere (rimando per questo aspetto a molte insistenti e perspicaci denunce operate qui, nello “Spazio di Atena”). Il paradossale ribaltamento di prospettiva per cui c’è una natura subdola, sporca e inquinante (inaccettabile) del femminile sulla quale però si costruisce il gradevole, il desiderabile (l’accettabile) ha in fondo un’incredibile fascino che ne determina la fortuna in termini sociali e pecuniari.

C) Per una pars costruens: il mistero rosso e l’essere per continuità

Una prima riflessione è immediata: non c’è parola né cosa che più del “sangue” e del “sangue versato” abbia nella cultura umana una simbologia articolata e radicata. Perché mai ai suoi misteri dolorosi, gaudiosi, gloriosi non ha parte né posto l’evento femminile del mestruo? Si direbbe che qui si produca un vulnus nella tessitura del simbolo; ancora una volta, un taglio profondo.

La seconda segue: lo spargimento del sangue umano è un evento che chiama in causa sempre la presenza di un altro che si fa carico di testimoniarlo e decifrarlo. Perché nell’evento femminile questa cifra resta invece affidata solo alla sua ripetitività? Eppure il mestruo non è mai fine a sé stesso: non perde di vista, anzi incarna il modo proprio di essere del corpo femminile, cioè quel che, senza calcare la mano, definirei “l’essere per continuità”: il filo rosso scorre per il futuro, per il dopo-di-noi, come promessa efficace al fine da raggiungere che è altro da sé perché è generativo; e che sia altro da sé è determinante perché il suo senso non si colloca lì dove avviene, cioè nel soggetto mestruato. Piuttosto ha una sua dinamicità costitutiva in uno spingersi oltre. Avere la mestruazione, versare il proprio sangue, è per il femminile viversi in una funzione, sapersi come un essere per continuità; sempre, un presiedere ad una missione che, quando il percorso viene completato, si riversa nella procreazione; nella nascita di un altro essere della propria specie. Ciò che si espelle nel sangue è infatti una possibilità che non è stata colta, non è stata espressa, ma non si estingue e continua nel rimando ad un’altra possibilità futura e prossima. Fa eco in ogni caso alla presenza di un miracolo per un altro che chiede custodia silenziosa e preziosa nel riserbo. Mai una fuga. L’altro con cui si misura, oserei dire, in mezzo a cui si insedia è, per un verso il compagno, per l’altro il figlio. Ciò che delinea è un percorso che lega l’altro che c’è all’altro che sarà. L’idea insomma che versare sangue periodicamente abbia come orizzonte di sfogo la nascita richiede una svolta nel pensiero che apra le porte di esso a una considerazione pluralistica, rompendo col solipsismo: la femminilità espressa in questa cifra è un principio intersoggettivo. E il pensiero torna al gesto complice di Amerigo, da cui avevo preso le mosse. A Milena Milani è costato caro, ma forse non invano.

TESTI

I Ladri

Il mestruo, a quanto pare, non serve
a nessun altro se non alla donna cui appartiene,
che pensava di tenerlo al sicuro

nella cassaforte del suo corpo.
Invece i ladri irruppero e l’agguantarono,
prendendolo al posto dei gioielli:

Ha quarantanove anni, non ne sentirà la mancanza –
ne prendiamo uno, magari due.
D’altro canto, avremo tutto il resto

li teniamo da parteNiente di cui vantarsi.
Però, non è una cosa che si può dimenticare.
Portarselo via così in una notte tranquilla –

è come rubare l’oscurità stessa,
o prendere la luna, facendola rotolare
aspettandosi che mantenga il suo fulgore.

Da M. Alvi, Un mondo diviso, a cura di P. Splendore, Donzelli, 2014, ora in Fil Rouge, cit., p. 26

Luna, mestrui e maree

Fu allora che mi disse vergognosa
la madre, guardandomi sottecchi,
essere donna è un’antica colpa
che si sconta con questo segreto ruscellare
che si spande tra le sponde delle cosce,
sangue di morte che monta e scema
come le maree e la faccia della femmina lunare.
Ma io mi portavo addosso con fierezza
quel tiepido di cellule sfaldate
come un uscire dal grembo di me stessa
a piccoli singulti umidi e rossi,
e quella giovane rosa che aspettava
dentro gli aromi del suo orto concluso.
Mi piaceva perfino guardandomi allo specchio
toccare il cerchio scuro delle occhiaie.
E poi mi fiutavo, sì, mi fiutavo,
come una selvatica bestiola già ferita
che finalmente sa qual è l’odore
che così tanto inebria il cane cacciatore.

F. Alaimo, Luna, mestrui e maree, in Fil rouge, cit., p.20

A primavera sbocciò il sangue tra le tue gambe – mistero gioioso, svegliarsi di

ombre fertili nel suo corpo in concordanza morfologica con la proporzione divina. (Il cadavere della bambina ai suoi piedi sorrideva).

L. Argentino,  in Fil Rouge, cit., p. 31

Udaylee1

Solo il legno e la carta si salvano
dal contatto con la donna mestruata.
Così hanno costruito questa stanza
per noi, accanto alla stalla.
Qui ci è permesso scrivere
lettere, leggere, e si può far guarire
le dita rovinate dai lavori di cucina.
Stanotte, non riesco a lasciare in pace le stelle.
E quando non riesco a dormire, percorro su e giù
questa piccola stanza, vado
dallo stretto letto di corda allo scaffale
ingombro di giornali polverosi
schiacciati da lucidi cauri scuri e da uno strombo.
Quando non riesco a dormire, accosto
la conchiglia dello strombo all’orecchio
per sentire il mio sangue che precipita,
un canto che pulsa,
un lento martellio nella testa, nei fianchi.
Questo dolore è il mio sangue che scorre contro,
che urta contro qualcosa –
grumi annodati di sangue,
che mi ricordano manciate di alghe strappate
che salgono con la schiuma,
salgono. E poi ricadono, ricadono sulla sabbia
sparse su uova di tartaruga appena deposte.

SujataBhatt, Il colore della solitudine, a cura di P. Splendore, Donzelli 2005, in Brunizem, Carcanet Press, 1988 (trad. di P. Splendore), ora in Fil Rouge, cit., p. 37

1 intoccabile durante le mestruazioni

Sangue

Moneta pagata alla vita

questo fiotto vermiglio

che torna negli occhi del sonno.

Non presagio di morte

ma grido del ventre

per allodole che hanno taciuto

sui rami del primo mattino.

A. M. Bonfiglio, Fil Rouge, cit., p. 42

Non sta più

nelle vene il sangue

è andato via

e ora sono bianca

nemmeno una goccia di rosso per farti

innamorare

G. Iorio, in Fil Rouge, cit., p. 89

Fenomenologia del mestruo

I

Di mestruo in mestruo narro

la mineralogia del sangue

amaro o dolce (ce n’è per tutti i gusti).

E’ questa ancora la tesi al fondo

della nostra fenomenologia.

D’impurità in purità passare

attraverso la rossa ferita

di carne, il fiume segreto

e straripante, le alte

anse della lunazione.

Di lì, purificate

rinarreremo il mondo

di carminio

IV

Il mestruo ti ricorda la predominanza

dell’umido e del basso.

del cieco e del nascosto

del fluido contro l’armato

del non detto su ciò che è nominato.

Ti apre all’imprevedibile

ti riporta alla regola

è il segno rosso del maestro severo

sulle tue pretese di leggerezza

il corpo è il quadernetto dove scrivi

una rossa poesia

una o due volte al mese

L. Magazzeni, “Fenomenologia del mestruo”, parte I e IV, da Fil Rouge, cit., p.p. 102-103.

Da Paternale

Con dedica paternale a un padre patriarcale

III

ma poi che ne sapete dei diritti di genitali soffocati

…nt’anni nella galera di famiglia? dei gerani da non toccare

perché ‘mestruata’?  delle grandi cose da

grandi del sesso (paterno) fava perpetuamente infavata

(infavante) dei nostri corpi invece infagottati

nella castità

          bambina che già zittellavo (grassa)

ovarica febbricitante sino a ventitreanni nella Casa

del Padre nella quale non ci sono mansioni diverse

ma una sola (la Sua i Suoi sbadigli la Sua

stitichezza la Sua fame i suoi divertissement

camuffati da sublimazione libridiche i Suoi

cantari la Sua pronuba Arte la sua missa

dominicalis) 

    a mandrie noi dietro le Sue gambe

alta-lenanti di nipote-di-prete saturo fino a che

strizzarlo non esce acqua di chiesa di missa mortis

latino religio italiotasettecentesca.

M. Bettarini. In Donne in poesia, B. Frabotta (a cura di), Savelli editore, p. 127.

La notte si accende

come un giglio di sangue

-fammi accogliere

il pianto e la debolezza

concedimi la resa

di essere sconfinato

sottile e forte, stremato e forte

debole e forte… forte 

M. Bisanti  Nella camera, esercizi dell’attesa,  Animamundi edizioni 2023, p. 34.

Sei un fiume che unisce

continuità e inizio,

ti ho aperto al sole

con tua madre

e ti navigo per sempre.

M. Bisanti  Nella camera, esercizi dell’attesa, cit., p. 60

Furia degli uccelli

Quando fottono sono Dio.

Quando battono in ritirata sono Dio

Tutti i cazzi del mondo sono Dio

e fruttano fruttano fruttano

dentro il dolce sangue della donna.

A. Sexton  Furia degli uccelli  ne “I taccuini della morte” ora in A. Sexton, Poesie su Dio, (R. Lo Russo a cura di), pp- 119-20

Mestruazioni a quarant’anni

Stavo pensando a un figlio.

L’utero non è un orologio

né un rintocco di campana,

ma all’undicesimo mese di vita,

il novembre del corpo

lo sento chiaro come quello del calendario.

Fra due giorni sarà il mio compleanno

e come sempre la terra ha finito il suo raccolto.

Stavolta andrò a caccia della morte,

la notte a cui tendo,

la notte che desidero.

Bene allora…

parlane!

Era già tutto nell’utero.

Stavo pensando un figlio

Tu! Quello mai avuto,

quello mai seminato o slegato,

quello di cui temo i genitali,

il gambo e il respiro del cucciolo.

Avrai i miei o i suoi occhi?

Sarai un David ho una Susan?

(I due nomi che ho scelto e sentito)

Diventerai l’uomo che sono i tuoi padri,

con gambe muscolose alla Michelangelo,

mani dalla Jugoslavia,

un po’ contadino, slavo e determinato,

un po’ il sopravvissuto, pieno di vita,

e con tutto questo,

potresti avere comunque gli occhi di Susan?

Tutto questo senza di te…

due giorni spariti nel sangue

io stessa morirò senza battesimo,

la terza figlia che non volevano.

La morte arriverà al mio onomastico.

Che c’è di male in un onomastico?

E’ solo un angelo del sole

Donna,

che tessi una rete sulla tua,

un sottile veleno ingrovigliato.

Scorpione,

perfido ragno…

Muori!

La mia morte dai polsi.

due etichette,

sangue indossato come un bouquet

che sboccia

uno a sinistra e uno a destra…

E’ una stanza calda,

il luogo del sangue

Lascia aperta la porta sui cardini!

Due giorni alla tua morte

E due alla mia

Amore!Che rossa malattia…

anno dopo anno, David, mi faresti impazzire!

David! Susan! David! David!

Piena e scarmigliata, un sibilo della notte,

giovane per sempre

ad aspettarti in veranda…

anno dopo anno,

mia carota, mio cavolo.

ti avrei posseduto prima di tutte le altre.

chiamandoti per nome,

chiamandoti mio.

A. Sexton, da Vivi o Muori, ora in “La zavorra dell’eterno”, Crocetti Editore, (C. Gamberi a cura di) p. 189-193.

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