Poetesse, monache e sgualdrine

Dall’altra parte della vita. La poesia come spogliazione e abbandono.
di Roberto Comelli

“Io sono la vostra voce,
il calore del vostro fiato,
io sono il riflesso del vostro volto,
l’Inutile palpito di inutili ali.

Ma fa lo stesso,
sono con voi, sino alla fine.

Ecco perché mi amate così avidamente,
nel mio peccato e nel mio male.
Ecco perché mi avete dato senza pensarci il migliore dei vostri figli,
ecco perché non mi avete più chiesto di lui, neanche una volta,
e avete riempito del fumo di vane lodi la mia casa svuotata per sempre.

E dicono: ‘non si può fondersi più strettamente,
non si può amare più perdutamente…’

Cosi come l’ombra vuole staccarsi dal corpo,
così come la carne vuole separarsi dall’anima,
così adesso io voglio essere dimenticata.”

(Anna Achmatova, 1922)

Anna Gorenko, era la figlia privilegiata di un aristocratico alto funzionario della Russia zarista.

Ancora molto giovane, quando volle rendere pubblica la sua prima raccolta poetica, il padre le intimò: “Non infangate il mio nome con la vostra poesia”.

“Non so che farmene del vostro nome” – fu la risposta. Da allora, Anna avrebbe scritto versi per tutta la vita – e sarebbe diventata quella che forse è la maggiore voce poetica russa del Novecento – assumendo lo pseudonimo Achmatova, dal cognome di famiglia di una leggendaria ava materna.

Tanti anni dopo, sulla “Pravda”, l’organo ufficiale dell’Unione Sovietica, l’Achmatova fu accusata da Zdanov, il più influente critico letterario stalinista, di essere “nello stesso tempo una monaca e una sgualdrina”. Per lei, ciò rappresentò l’ennesimo decreto di morte civile. Troppo pericoloso salvare anche un solo foglietto scritto. La sua opera più famosa – “Requiem” – sopravvisse soltanto perché una catena di amiche fidate ne imparò a memoria i vari frammenti, prima di distruggerli.

Più o meno negli stessi anni, pur da un’abissale distanza, un’altra quasi-monaca di straordinaria profondità poetica – Cristina Campo, la “poetessa assente”, anche lei celata dietro un eteronimo – scriveva nei rari, meditatissimi versi del suo “Passo d’addio”: “Ora rivoglio bianche tutte le mie lettere, / inaudito il mio nome, la mia grazia richiusa; / ch’io mi distenda sul quadrante dei giorni, / riconduca la vita a mezzanotte.”

Così Thomas Sterns Eliot: “Il progresso di un artista è un perpetuo sacrificio di sé, una continua estinzione della personalità”. Fino a Carmelo Bene, che rispondeva “mi sono degradato a poeta”, quando lo intervistavano sull’esperienza dei propri tentativi poetici.

Molti non si rendono conto che chi scrive poesia, tace. Che la parola poetica stessa è una forma altissima di silenzio – forse la più eloquente. Tutt’al più, in grado di dire “l’acerbo e indegno / Mistero delle cose”, secondo la nota intuizione leopardiana ne “Le ricordanze”, non certo di edulcorarlo o di rendere più accattivante e seducente il profilo del poeta. E chi incontra questo silenzio, non ne infrange il sigillo in nome di una chiacchiera (“E dicono…”).

“…Io sono l’inutile palpito di inutili ali… Ecco perché mi amate così avidamente nel mio peccato… E avete riempito del fumo di vane lodi la mia casa svuotata per sempre … Così adesso io voglio essere dimenticata.”

Ogni volta che incontro una poesia che sembra partorita per patrocinare la persona dell’autore, promuovendone l’immagine, come se fosse asservita ad accumulare, a consolidare e a “implementare”, per usare un’orribile espressione alla moda, il proprio vissuto d’artista – oppure a enfatizzare la propria personalità, sottolineandone come significativa ogni minima postura mondana, quasi a renderla più intrigante, come se fosse un eccezionale accadere – ripenso a questi stupefacenti versi di Anna Achmatova che racchiudono e custodiscono una delle più persuasive e toccanti definizioni della Poesia come taglio e sparizione, eterno resto e residuo di ciò che manca, evento dell’indicibile.

Se la letteratura è dall’altra parte della vita – come scriveva Céline – non restituiteci tra le pagine la vanità dell’esistenza, il suo cadavere imbellettato. Ma donatecela trasfigurata in canto, dopo averla bruciata nel fuoco greco della parola.

Pubblicità

Rispondi

Inserisci i tuoi dati qui sotto o clicca su un'icona per effettuare l'accesso:

Logo di WordPress.com

Stai commentando usando il tuo account WordPress.com. Chiudi sessione /  Modifica )

Foto Twitter

Stai commentando usando il tuo account Twitter. Chiudi sessione /  Modifica )

Foto di Facebook

Stai commentando usando il tuo account Facebook. Chiudi sessione /  Modifica )

Connessione a %s...