Lo spazio di Atena
di Beatrice Orsini
Capita talvolta che la poesia, lungi dall’essere un richiamo puramente astratto all’interiorità del poeta, si leghi a latitudini e luoghi precisi o espliciti la propria appartenenza a determinati momenti storici e contesti sociali, con i quali crea annodamenti unici e singolari – dunque particolarizzati, di modo che l’io poetico non diviene mero ricettacolo o spettatore di accadimenti esterni a sé, ma vi compare quale interlocutore attivo, soggetto desiderante proprio perché sofferente, persino laddove sembrerebbe portarne unicamente il marchio in qualità di vittima.
Latitudine e luoghi, paesi e città, che anche al lettore lontano – per geografia o temporalità – possono diventare, grazie al linguaggio in cui sono immersi, immediatamente contemporanei e a lui affini, fino ad assurgere quel carattere di universalità e atemporalità che si richiede ad ogni forma artistica.
Non è possibile scindere la poesia di Alda Merini dalla sua milanesità. Non è possibile separarla da quei luoghi che sono strettamente legati alla sua vita e, di conseguenza, al suo dire poetico, al punto da essere nota ai più come la “poetessa dei Navigli”. Ma accanto ai Navigli, a quel mondo per certi aspetti ancora periferico e marginale rispetto alla mondanità e alla laboriosità meneghina, si situa uno spazio relegato ai confini della normalità da parte di quanti a lungo sono stati convinti si potesse tracciare uno spartiacque tra sanità mentale e follia. Questo luogo, che per molti si declina come manicomio, ospedale psichiatrico o altro, per la Merini ha un nome preciso, quello di Affori, comune dentro il capoluogo, approdo di anime perse, che nell’economia dei suoi versi assurge ad un nuovo e tanto più doloroso Sinai, ad una “Gerico antica”, ad una inedita “Terra Santa”.
Affori, paese lontano
immerso nell’immondezza,
qui si conoscono travi
e chiavistelli e domande
e tante tante paure,
Affori, posto nuovo
che quando si conviene
ti manda il suo raggio nudo
dentro la cella muta.
“La Terra Santa”, vertice e capolavoro della poetica di Alda Merini, si muove tra due registri solo all’apparenza antinominici, in realtà corollario necessario uno dell’altro: quanto più l’anima viene negata e misconosciuta, nei gesti tristi consumati fuori da qualunque ritualità – da qualunque significazione – tanto più l’anima anela all’amore, alla salvezza, a Dio. A qualcosa che strappi dalla ferocia di una condizione che “dal mondo ci aveva divelti/come erbaccia obbrobriosa”. Tra un appello e la mancanza di risposta, tra un anelito di vita e una vita che non lascia spazio alla speranza, si dispiega – a distanza di anni e nel ritornare a quell’esperienza – la voce della Merini:
Io sono certa che nulla più soffocherà la mia rima,
il silenzio l’ho tenuto chiuso per anni nella gola
come una trappola da sacrificio,
è quindi venuto il momento di cantare
una esequie al passato.
L’antinomia che pervade la raccolta è solo in superficie, perché se è vero che “il dolore è senza domani/è un muso di cavallo che blocca/i garretti possenti”, nel dolore la poetessa – al pari di una figura ascetica – cerca una strada che la tragga, se non in salvo, in un campo di redenzione (“Laggiù tu vedevi Iddio/non so, tra le traslucide idee/della tua grande follia.)
Senza mai sottrarsi alla concretezza della carne e alle piaghe di una quotidianità cruda e oscena, la Merini lancia la verticalità del suo appello verso un altrove capace di superare le alte mura del dolore, in una ricerca instancabile che accede a spazi esterni – altri – nella misura in cui accade internamente. E il delirio non è solamente un dire in modo errato, ma un errare che giunge a un dire.
Ho conosciuto Gerico,
ho avuto anch’io la mia Palestina,
le mura del manicomio
erano le mura di Gerico
e una pozza di acqua infettata
ci ha battezzati tutti.
Lì dentro eravamo ebrei
e i Farisei erano in alto
e c’era anche il Messia
confuso tra la folla:
un pazzo che urlava al Cielo
tutto il suo amore in Dio.
Noi tutti, branco di asceti
eravamo come gli uccelli
e ogni tanto una rete
oscura ci imprigionava
ma andavamo verso le messe,
le messe di nostro Signore
e Cristo il Salvatore.
Fummo lavati e sepolti,
odoravamo di incenso.
E dopo, quando amavamo,
ci facevano gli elettrochoc
perché, dicevano, un pazzo
non può amare nessuno.
Ma un giorno da dentro l’avello
anch’io mi sono ridestata
e anch’io come Gesù
ho avuto la mia resurrezione,
ma non sono salita nei cieli
sono discesa all’inferno
da dove riguardo stupita
le mura di Gerico antica.
***
Toeletta
La triste toeletta del mattino,
corpi delusi, carni deludenti,
attorno al lavabo
il nero puzzo delle cose infami.
Oh, questo tremolar di oscene carni,
questo freddo oscuro
e il cadere più inumano
d’una malata sopra il pavimento.
Questo l’ingorgo che la stratosfera
mai conoscerà, questa l’infamia
dei corpi nudi messi a divampare
sotto la luce atavica dell’uomo.
***
Laggiù dove morivano i dannati
nell’inferno decadente e folle
nel manicomio infinito
dove le membra intorpidite
si avvoltolavano nei lini
come in un sudario semita
laggiù dove le ombre del trapasso
ti lambivano i piedi nudi
usciti di sotto le lenzuola
e le fascette torride
ti solcavano i polsi e anche le mani,
e odoravi di feci
laggiù, nel manicomio
facile era traslare
toccare il paradiso,
Lo facevi con la mente affocata
con le mani molli di sudore
col pene alzato nell’aria
come una sconcezza per Dio.
Laggiù nel manicomio
dove le urla venivano attutite
da sanguinari cuscini
laggiù tu vedevi Iddio
non so, tra le traslucide idee
della tua grande follia.
Iddio ti compariva
e il tuo corpo andava in briciole
delle briciole bionde e odorose
che scendevano a devastare
sciami di rondini improvvise.
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