Voglio parlare di te notte. Monologhi di Barbara Korun

Lo spazio di Atena
di
 
 Lucia Triolo

La poesia desidera se stessa

PREMESSA

Fino a che punto la poesia può vedere ciò che non si vede? Cosa vede la poesia quando vede l’invisibile?

È convinzione abbastanza condivisa, anche se spesso sottaciuta, che una delle prerogative più intriganti del dire poetico risieda, appunto, nella sua forza di espressione dell’invisibile e questo anche quando fa suo oggetto qualcosa che si percepisce con la vista o gli altri sensi. Sempre in base a questa convinzione, infatti, l’immagine visiva non coglie, non esaurisce quasi mai la pregnanza di ciò che nella visione si mostra.

La poesia avrebbe così a che fare con qualcosa che non si vede non perché non appare, ma al contrario, perché in certo senso, appare troppo, tanto da eccedere il potere dello sguardo: sniderebbe il “ciò che sta oltre”, o meglio il “ciò che eccede” lo sguardo, dando per scontato che ci sia. Ma allora è lecito chiedersi: “ciò che sta oltre” agisce come causa o è effetto della parola poetica? Quest’ultima svela, mette a nudo, in una parola dice le cause che la muovono oppure le emozioni che essa stessa produce? E se le dice entrambe che relazione c’è tra di esse?

La domanda è retorica: le cause incalzano gli effetti per catturarli e quest’ultimi, in un feedback snidano le cause per rivendicarle. Unica è l’emozione. Il circuito del loro rincorrersi in un gioco di continui e reciproci rimandi può ben essere rappresentato dalla parola desiderio. La poesia come in uno specchio riflette magicamente ciò che non si vede, o se si preferisce, dotata di un terzo occhio, desidera l’invisibile e affila le proprie armi -le parole- per dirlo.

È lecito allora fare un passo in più e chiedersi: per vedere “ciò che sta oltre”, per mettere allo scoperto l’invisibile, la poesia non finisce forse col desiderare se stessa? È lecito asserire che, se ben difficilmente i poeti possono fare a meno della poesia, questo avviene perché come in un gioco d’amore (che però non ha nulla di narcisistico), la poesia desidera la poesia?

***************

due si spogliano
si tolgono le vesti
si sfilano le scarpe
si levano i gioielli e l’orologio
si denudano completamente
continuano a spogliarsi
con mani carezzevoli
si tolgono la professione il nome
le abitudini quotidiane
con baci pazienti
si liberano dei loro amori
trascorsi delle loro attese
con morsi profondi si disfano
degli anni della loro passione
con la bocca a vicenda
si sbarazzano del sesso
si svestono dell’infanzia
(operazione lunghissima)
si tolgono di dosso la mamma
e il padre con energici lavacri
forti abbracci e strusciate
di corpo a corpo
ed effusione di linfa
raggiungono le tenebre
mai nominate alle quali
danno a ritroso dei nomi
che man mano dimenticano
quando si infiammano
continuano a spogliarsi
attraverso il riso il pianto
i gemiti e le grida
fino all’innominabile
carnalità
di là della nascita
sono nudi

(DUE)

Mi piace introdurre con questo testo le considerazioni che seguono -senza alcuna ambizione di esaurire la ricchezza e la profondità dei tratti che caratterizzano la poetica di Barbara Korun- e, in certo senso, anche quelle che precedono. Esso mostra come la cifra erotica della sua poesia vada conquistata. Non tanto perché sia difficile percepirne il segno nel verso (immediatamente, del resto) quanto piuttosto perché la cifra più segreta di questo segno viaggia sui trampoli del suo essere poeta-donna. Alta, veloce, quasi alata, obbliga lo guardo ad inseguirne i percorsi lungo traiettorie zigzagate delle quali quella carnale, sempre punto di arrivo e/o di partenza, non è detto sia la più accattivante e profonda. Lacarica di sensualità che si sprigiona nei versi di Barbara Korun è in grado di accogliere in sé, senza escludere ma anzi permeandola, tutta l’esperienza intima (umana, culturale, sociale etc…) di chi scrive. Quasi ad eliminare o, se si preferisce, a creare un ponte di passaggio tra ciò che sta al di là (ciò che di per sé è neutro) e ciò che sta al di qua di esso (la corrente del desiderio). 

La produzione poetica della Korun (nata a Ljubljana, Slovenia 1963) finora apparsa in italiano solo in questa antologia dal titolo Voglio parlare di te notte. Monologhi (Multimedia Edizioni 2013) presenta la singolare caratteristica di non creare distanze tra l’erotismo che ne culla le parole e la poesia come espressione di per sé erotica, e per questo degna essa stessa del desiderio che genera e da cui è generata; erotica, insisto, in quanto, nel dire d’amore, si offre essa stessa da amare:

non danneggiarmi quando mi penetri
ferita dalla tua morbidezza
dalla tenerezza le forze a stento
mantengono ancora l’equilibrio
conosco il tuo acume
la tua sottigliezza
con gesto lento, preciso
abbatterai gli argini
nel cielo comincerà
a risplendere l’aurora polare

(da PIZIE)

Come non cogliere qui il doppio volto cui si accennava? L’intimità del linguaggio poetico reinventa dentro la parola l’esperienza dei sensi nel godimento: grazie alla felicità e all’intensità dei suoi effetti di metafora, la parola poetica è qui per sua natura voluttuosa quanto ciò che evoca. Lo dice bene, Loredana Umek nella prefazione a Voglio parlare…. “L’esperienzaerotica in quanto sensazione nobilitata dalla vita interiore permea perfino l’atteggiamento dell’autrice nei confronti della poesia, gioco di seducente tessitura di parole, che le si rivela come ricerca profonda del desiderio, brama inesauribile dell’anima. La poesia diventa oggetto di desiderio e di libertà per esprimersi in modo autentico”(p. 5). Ciò che ci si fa innanzi, addentrandoci nella lettura, è il combinarsi di un gioco di desiderio (“no, nulla di me /deve restare fuori, che io sia interamente in te, tutta quanta”; da CHE): chi è il tu, il destinatario, l’altro, l’amante riamato? Lui stesso o il verso che lo evoca? Quasi che l’accorparsi delle parole nel linguaggio poetico si modelli sull’accoppiarsi dei corpi nell’incontro d‘amore in una strategia di ravvicinamento sempre più esasperata: “nel tardo autunno si stacca dal cielo/ il mille volte più greve/ peso della lingua/ osmosi del contatto” (da PIZIE). E ancora

fecondata dalla tua morte
ti ho partorito in una culla
nessuno si è accorto con quanta
timidezza ho sussurrato il tuo nome
per la prima volta
poi crescevi in me
come una figlia e un amante
e così
mai separate mi sono fusa di nuovo con te
e già ti sei dilatata
in madre sorella
sei tutto ciò che sento
per l’altro
totale apertura
assoluta raffinata leggerezza
che non voglio toccare
e adesso
al di là delle parole
ti stai trasfigurando
in uomo 

(ALLA LINGUA)

Ed è fascinazione; direi di più, fascino tentatore per chi scrive in versi, perché riesce là dove non molti altri riescono: descrivendone puntualmente i momenti, i movimenti, le sensazioni, riesce ad avere la poesia come amante

innanzi tutto ti spelli

(…)

e aspetti
che le parole
si appiccichino
che pungano
e rimangano
quando sei tutta
ricoperta da loro
completamente
ritorni
avvelenata
estrai dal tuo corpo
una parola dopo l’altra
e le disponi
nelle righe
in fondo al biancore
ti restano
piccole cicatrici

(COME SCRIVI UNA POESIA)

Notevolissima in questa autrice la capacità di non rinunciare alla propria femminilità e nello stesso tempo di esportarla come sguardo ladro su tutto ciò che la circonda, riversandola nei toni tanto intimi, lucidi e gioiosi quanto coraggiosi di certi passaggi poetici: l’oltre, l’eccedenza dell’invisibile nel visibile esplode nel verso quando, superando ogni antropocentrismo, accarezzando metamorfosi, mette in scena dietro la virilità maschile le sembianze di un cervo o paragona l’amore ad un leone. Lo sguardo ladro di Barbara Korun non arretra, non si fa scalzare nemmeno dai ripetuti richiami alla morte. Eros e Thanatos gareggiano come due facce della stessa medaglia: la vita e in particolare modo la sua vita di donna-poeta

Il canto, un corpo di parole, respira il proprio sonno.
In esso gioca la notte.
Notte e morte, due amorevoli sorelle,
levano allo spirito
il ricordo ed è libero,
libere sono le parole del canto,
quando fa l’amore con l’assurdo,
il caos e le tenebre.
Non c’è morte non c’è vita.
Al limite dell’esistenza non c’è durevolezza.
Non c’è neanche mistero.
Solo tristezza,
un immenso abisso di tristezza,
nel quale cado
felice, eterna,
senza fine

(CANTI DI MORTE 4)

Dice di sé Barbara Korun: “Per la mia poesia la musica delle parole è molto importante, il ritmo ed i suoni fanno sì che la mia poesia rimanga ad un livello inconscio ma in superficie sono più visuali; spesso io vedo il poema al momento di scriverlo, così come i miei sogni sono anche reali, vividi” (Giancarlo Cavallo, Sulla poesia di Barbara Korun, in https://www.potlatch.it/verso-casa-poeti-lontani-visti-da-vicino). E da questa angolazione privilegiata i Monologhi (cfr. pp.  108-134) intersecano voci di donna che hanno attraversato i secoli (dalla moglie di Noe, una donna senza nome dopo il diluvio, a Monica Lewinsky che ha realizzato le grandi cose cui era destinata a contatto del gran cazzo del presidente USA, passando per Elisabetta I, Madre Teresa etc…), per riappropriarsi di momenti di dolore e di amore per i vinti dalla vita, immedesimandovisi attraverso l’immaginazione e la parola poetica

Di seguito altre sue liriche e una sua interessante “Riflessione sulla poesia”

                                                            POESIE

CHE

che ti porto sempre con me o tu porti me, non lo so. mi ossessioni,
con tenacia, dolcezza, malinconia. quando mi sveglio per prima
cosa mi imbatto in te, prima di addormentarmi ti accarezzo, con
me sei nel silenzio o quando parlo, tre percezioni e sensazioni,
ti stemperi nella luminosità, in ciò che è più soave più mio.

….

IL CERVO


mi sveglio con la calda lingua di un cervo tra le gambe,
attraverso la porta aperta penetra la piana luce della sera.
il cervo mi punzecchia lievemente i seni leccandoli. lascio
che con la ruvida lingua mi lambisca il sesso,
il petto e il viso, m’inebria il suo profumo,
profumo di terra, di muschio, di fradicio e di paura.
odore d’istinto.
poi mi si sdraia accanto, accanto al mio ventre, da poter
accarezzare i suoi peli setolosi, ha la testa vigile sollevata
e lo sguardo fisso lateralmente, nel bosco.
nell’oscurità risalta il suo nudo pene rosso.
quando il tempo si addensa e tendo il braccio nel buio, sfioro
un corpo maschile. la mia smania d’amore è cocente.
mi ama con naturalezza e da vicino.
nelle mani ha i venti del nord e del sud.
attraverso il suo corpo scorrono i fiumi e si muovono gli oceani.
la bocca è calda e piena come la pioggia estiva,
la stanza è colma di voci terrestri ed extraterrestri.
a volte qualche raggio smarrito della luna gli scopre il volto.
non mi guarda negli occhi come se volesse difendermi da se stesso.
talvolta mi ama con trasporto da non farmi sentire più la gravità.
talvolta la voluttà sgorga dal suo ombelico come una piccola
sorgente limpida, talvolta dal suo interno vomita la lava,
ma non mi ferisce mai.
sempre con immensa attenzione mi posa con il ventre sulla terra,
e quando mi morde il collo e fiuto il suo caldo alito, lo so
che verrò inevitabilmente risparmiata.
ai primi albori nei suoi capelli tasto due cornetti
le setole dalla testa si allargano sulla schiena, fino al coccige.
sul ventre gli spunta la soffice erba animale.
all’alba mi scruta una testa di cervo con occhi ormai appena umani,
con occhi di là del confine.
le sempre più coriacee mani mi accarezzano assenti.
gli cresce una corona.
nel capanno si fa strada la fragranza del mattino e il cervo si alza.
quando esco davanti alla porta, mi guarda in maniera
da spaccarmi in due pezzi sull’istante e bruciarmi.
e mentre ascolto frusciare l’eco dei suoi veloci passi animaleschi,
sento che dalle mie due riarse metà crescono fiori
selvatici.

….

IL LEONE

é un leone il mio amore per te. un leone d’oro, un leone
dalla pelle e dagli occhi dorati, mi cammina sempre
accanto e quando mi siedo per riposarmi, si sdraia ai miei
piedi con un cane fedele, devoto. gioco con lui. mi sdraio
tra le sue zampe e lascio che mi rotoli come un cucciolo,
sento con precisione il peso delle sue zampe e i suoi artigli
acuminati. e fiuto l’ alito di un animale carnivoro.
adesso sta morendo, il leone d’oro. mi segue sempre più
vacillante e talvolta mi raggiunge nel momento in cui ormai mi
alzo dal giaciglio. intorno al muso tracce di sangue rappreso. giace
sul fianco e mi guarda con il suo sguardo giallo, quasi spento. leone,
dov’è la tua forza? dove si è perduta la tua voce? posso soltanto
sdraiarmi tra le tue stanche zampe e chiudere gli occhi con te.

CANTI DI MORTE 3

Il pensiero della morte è come
un soffice cuscino
me lo metto ogni
sera sotto
il capezzale
è pieno
di oscuro mistero
di grande amore
di grazia divina che noi
feriti e ridotti in miseria
ci fa sempre rinascere
in un vivo seme di luce
e gli angeli, gli angeli!
dalle ali scintillanti
colmano l’aria con il profumo
di mirto, di sandalo e di cannella

                                                 RIFLESSIONI SULLA POESIA
                                                         di Barbara Korun

Scrivo forse diversamente essendo una poetessa e non un poeta? In quanto poetessa i lettori mi accettano diversamente di come lo farebbero se fossi un poeta? Per me fa lo stesso. Ma sociologicamente parlando non lo è. Il genere sessuale al quale appartengo senza dubbio influisce su come scrivo, anche se ignoro in che modo, essendo io un’entità. Ciò che sono comprende anche il mio sesso, comunque non posso assolutamente togliermelo da dosso, fare finta che non esiste o astrarlo, neanche ipoteticamente. Nemmeno intendo farlo. Leggo la poesia che certe donne scrivono in maniera da eludere il loro sesso, di negarlo, di non metterlo in mostra bensì sottrarlo alla vista. In quanto a me la mia femminilità mi eccita più che inquieta. Mi fa piacere (ne godo) e mi rende felice.

Una volta pensavo diversamente: di essere fatta a strati. Nelle cui profondità c’è l’essenza o un essere. E quest’essenza non è niente, solo esiste. (Sa di essere un miracolo per il semplice fatto di esistere? E cos’è un miracolo? “Senti, pioggia?” (*)

Dopo, in qualche modo, questa essenza è umana, è un essere umano. Non è donna, non è uomo, è un essere umano. Si porta appresso un’eredità. In seguito viene il genere sessuale. E infine arriva la lingua, l’appartenenza ad altra gente.

Adesso però so che tutto questo è ben bene mescolato insieme. Che forse esiste quella nuda essenza, “quell’essere o creatura” che non è nulla, tranne il fatto che esiste; e dall’altra parte tutto il resto, inscindibile.

L’essere non ha parole. Tutto il resto invece ne ha moltissime e diverse.

Per me la letteratura è comunicazione. Scrivere/leggere significa parlare, chiacchierare, conversare con qualcuno, con l’altro (che può essere in me, nel mio intimo). Mi auguro solo d’incontrare nella vita quante più persone possibile che siano interessanti, intelligenti, dalle vedute larghe, mature spiritualmente e moralmente (di persona e attraverso la lettura).

(*) Nel senso: hai facoltà percettive o sei qualcosa di amorfo?

Tratta da Casa della poesia 4/4/ 2011

6 commenti Aggiungi il tuo

  1. almerighi ha detto:

    ottima poetessa, buona retrospettiva

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  2. poetella ha detto:

    questo post è un capolavoro.

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  3. silviadeangelis40d ha detto:

    Indubbiamente il tema dell’invisibilità della poesia, è molto interessante, e poco dibattuto, anche se meriterebbe un certo rilievo.Un’autrice “completa”, e molto valida, anche, in quel suo manifestare un’accentuata femminilità….

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  4. luciatriolo ha detto:

    L’ha ripubblicato su poesie semiserie.

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